Odissea, un gioco da ragazzi?


di Marzio

È curioso che per descrivere il viaggio che conduce il migrante clandestino in Europa si parli di Odissea, epopea piena di peripezie come quelle che affrontano oggi i clandestini, ma parte di una cultura epica europea e, soprattutto, storia di un ritorno a casa. Non è la storia di chi dal Medio Oriente, dall’Africa subsahariana ha raggiunto l’Europa.
Lo spettacolo è stato creato da cinque ragazzi provenienti dal Senegal, dalla Nigeria, dal Pakistan e dall'Afganistan sotto le direttive di un'attrice professionista, Sara Cianfriglia e della regista, Laura Sicignano e si è sviluppato a partire da un esperimento di laboratorio teatrale nella comunità genovese dove sono approdati i ragazzi.
L’Odissea dei ragazzi è più Odissea che Storia autobiografica dei ragazzi. È odissea di Telemaco a cui la madre già da piccolo dona la spada per farlo crescere in fretta e sostituire il padre, è odissea di Penelope che deve difendersi da un mondo che la vuole manipolare, è odissea di Calypso che deve lasciar partire il suo amato ed è odissea di Ulisse che viaggia, che vede i suoi compagni lottare tra di loro o meditare di tradirlo. Va però oltre il poema, ad esempio, nel problema della comunicazione; Mi sento solo, che lingua parliamo stasera? Boh! Ripetono i ragazzi come ritornello in una parte cantata, o meglio “rappata”, dello spettacolo. Il viaggio degli attori è altra cosa, si capisce dalla fortissima emotività che viene trasmessa durante spettacolo: quando vengono mostrati cartelli con scritto mi manchi o sono solo noi sappiamo che per Ulisse è solo questione di tempo, mentre spesso chi fugge non può nemmeno pensare di tornare a casa, poiché verrebbe ucciso. Nonostante quest’aria cupa che circonda il viaggio, quello che noi vediamo è un segno molto positivo: cinque ragazzi reduci dall'avventura intrapresa in un mondo privo di scrupoli di “passatori”, corruzione, egoismo e avidità, si sono ritrovati, grazie a un progetto della comunità che li ha accolti a Genova, a fare del teatro assieme. Questo è segno che quel mondo non li ha intaccati a sufficienza da impedirgli di accettare la proposta di un progetto artistico, non è stato abbastanza duro da impedirgli di mettere in gioco le loro emozioni più violente. Questo loro vissuto non è stato abbastanza crudo da impedirgli di accettare l’aiuto della compagnia teatrale italiana che ha proposto questo progetto, o di lavorare a fianco di altri ragazzi con storie simili, ma di etnie così diverse e lontane.
Ai ragazzi di fede musulmana chiediamo se non è stato un problema toccare, abbracciare l'attrice, ballare con lei, No, per niente rispondono tranquilli, segno di un’apertura mentale che a noi spesso manca, e ci rende orbi, facendoci scambiare questi Ulissi per dei Proci.

Il palco è alla fine coperto di sacchetti accartocciati, fogli strappati, petali schiacciati, come le baraccopoli in periferia dove spesso i clandestini finiscono, chissà che non ci siano passati anche questi ragazzi.

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