Alla ricerca di Gihan: immagini di una rivoluzione


La maggior parte delle volte, se chiedo a mia madre di venire con me a teatro, mi risponde di no. Il teatro in sé le piace molto; è la ripetizione di meccanismi teatrali consolidati ormai da secoli a metterle noia. Le sembra che il teatro non abbia ancora trovato un nuovo linguaggio, una nuova forma con la quale presentarsi al pubblico del 2013. A moltissimi spettacoli porge la critica “carino, ma già visto”. Martedì sera, però, a vedere Pictures of Gihan ci è venuta volentieri, senza nemmeno che glielo chiedessi io. Sarà che dopo quattro giorni di FIT, nonché di miei dettagliati resoconti di spettacoli cui ho assistito, dell'atmosfera del festival, delle discussioni e degli scambi di opinioni che ho avuto, si è incuriosita e ha deciso di lasciare da parte le sue perplessità.

Nutro molta gratitudine nei confronti della compagnia Muta Imago per aver creato questo spettacolo. Perché il suo aspetto innovativo è molto grande, e ha mostrato a mia madre quello che il teatro, oggi, sa fare. E perché ha mostrato, a me, che l'utilizzo della tecnologia, dei social networks, degli smartphones può essere usato in modo intelligente e creativo – per condividere aspetti importanti delle nostre vite personali e della Storia contemporanea, per avvicinare le persone malgrado le distanze geografiche.
Pictures from Gihan non è il resoconto della primavera araba in Egitto, non vuole nemmeno spiegarne le cause storiche. Gihan, giornalista e blogger egiziana che ha preso parte alla rivoluzione, non è la protagonista dello spettacolo, ma ne è la base drammaturgica. Lo spettacolo nasce a partire dai suoi tweet, le sue fotografie, i suoi video; tracce che gli attori sul palco mostrano al pubblico cercando di riproporre lo scorrere del tempo durante i giorni della rivoluzione dalla prospettiva di questa giovane donna. Anche mia madre conviene con me: mai abbiamo assistito ad uno spettacolo costruito sulla base di un blog.

A partire da queste frasi di Gihan, che rileggo dal suo blog ora, mentre scrivo, nasce uno spettacolo molto multimediale, dove numerosi schermi si sovrappongono gli uni sugli altri, dove moltissimi rumori riempiono la scena, dove le luci sono usate in modo parco – l'illuminazione arriva prevalentemente dai monitor dei computer, dei cellulari, e dai fasci di luce delle proiezioni sugli schermi che delimitano la profondità del palcoscenico.
Gli attori si descrivono scienziati, che manipolano le tracce che Gihan ha lasciato sul web, le mescolano, le interpretano, le agiscono. Ci mostrano la loro indagine, il loro archivio di documenti e di fatti riguardanti la giovane attivista, le sue dichiarazioni quindi, ma anche quelle della sua famiglia o di un giornalista italiano al Cairo, che la conosce. I performers cercano di avvicinarsi a Gihan, alla persona fisica che sta dietro ai tweet: è simbolico che, durante una telefonata all'amico giornalista, l'attrice chiede “hai visto Gihan? Dove l'hai vista? Quanto lontana era da te?”, come per assicurarsi che si tratti di una persona reale, in carne ed ossa; e per cercare di andare effettivamente oltre alle sue dichiarazioni virtuali.

E se la parte mediatica dello spettacolo è molto forte ed esteticamente affascinante, quella che vuole evocare le manifestazioni in piazza Tahrir ci riempie l'udito con i rumori della folla, i passi della gente, le urla degli slogan rivoluzionari. Le parole non si distinguono, ma non è importante. Se fossimo stati realmente anche noi in piazza Tahrir, le nostre frasi e quelle dei nostri interlocutori sarebbero state inghiottite dalla folla, non avremmo captato che semplici parole; libertà, uguaglianza, giustizia. E se i social networks e i media in generale sono stati di principale importanza per la coordinazione della protesta anti Mubarak, “è stata la lotta in strada ad essere cruciale […], è stato il potere della lotta a fare la rivoluzione”, come afferma Gihan stessa, ed è quindi il potere di questa folla enorme a voler essere rappresentata sul palcoscenico, non la singola persona.
Il percorso di Gihan verso Tahrir si intreccia al percorso degli attori verso Gihan, in un turbine di immagini, tweet, video, parole, filmati, rumori forti, comunicati, passi, slogan. Per poi terminare in un silenzio titubante, dove gli attori cercano di formulare un'ultima domanda a Gihan, che collega finalmente in modo definitivo le loro storie: che cosa ha fatto scattare la rivoluzione in Egitto? E cosa dovrebbe succedere, oggi, qui, per far scattare la rivoluzione anche noi nostri Paesi?, rivelando la necessità di un cambiamento radicale anche nella nostra società occidentale.

Testo: Martina M / Foto:  Alessia/Muta Imago

Commenti

Post popolari in questo blog

Le 12 fatiche dei Barabao...

Le maschere di Habbe & Meik, esilaranti ma senza rapire...