After show. Riflessioni su un incontro
di Martina
Tra le interessanti attività che il FIT propone, una delle possibilità più arricchenti è – secondo me - , quella di poter discutere con gli attori alla fine dei loro spettacoli. Nascono sempre intelligenti spunti di riflessione, vengono poste domande di ogni genere, ci si scambia pareri.
Tra le interessanti attività che il FIT propone, una delle possibilità più arricchenti è – secondo me - , quella di poter discutere con gli attori alla fine dei loro spettacoli. Nascono sempre intelligenti spunti di riflessione, vengono poste domande di ogni genere, ci si scambia pareri.
Dopo
la pièce
di venerdì scorso, i ragazzi che hanno portato al Foce la loro
Odissea
si sono seduti tutti in fila, sul bordo del palco, per rispondere
alle domande e sentire le osservazioni del pubblico; composto
prevalentemente dai nostri ragazzi, scolari delle medie e studenti
dei licei.
L'Odissea
dei ragazzi
è stata, per me, uno spettacolo molto forte, commovente,
emotivamente profondo. Le vicende di Telemaco e di Ulisse si
intrecciavano al vissuto personale dei cinque attori protagonisti,
scappati dai loro paesi per fuggire a carestie, a grandi dolori, a
una vita precaria, a volte addirittura alla morte.
Tutto
questo ci è ben chiaro, anche nei più difficili e macabri dettagli,
soprattutto ora, a poche settimane dal disastro di Lampedusa.
La
regista dello spettacolo, Laura Sicignano, descrive con la parola
viaggio
il percorso di immigrazione clandestina dei cinque ragazzi; dandogli
una connotazione quasi positiva, di avventura, di scoperta. Per
cercare di non pensare più alle loro difficoltà, al dolore, alla
nostalgia, alla paura. Queste emozioni sono però ancora ben presenti
nelle menti degli attori, che seduti sul palco in attesa di domande
sono calati subito in una dimensione buia, tetra, triste, addolorata.
Gli
sguardi fissi, persi nel vuoto, tristi. Sguardi di chi, dopo un lungo
percorso (chiamiamolo pure viaggio),
non è approdato a casa, come Ulisse, ma in una società ostile e
profondamente diversa. Un luogo, l'Italia, terribilmente lontano
dalle loro culture: da quella afgana, pakistana, nigeriana,
senegalese. E tuttavia, questi cinque ragazzi hanno fatto proprio il
linguaggio teatrale occidentale, creando uno spettacolo che racchiude
tutta la loro storia, di immigrazione, di clandestinità e di
abbandono.
Tutto
questo, che secondo me è anche il punto cruciale dello spettacolo,
ai nostri ragazzi non è stato chiaro subito. Lo hanno dimostrato le
loro domande iniziali, che hanno messo noi (come pubblico) su un
piano ben diverso da quello degli attori. E
ora che avete fatto lo spettacolo, cosa volete fare? “Lavorare.”
Che lavoro vorreste fare? C'è
un lungo silenzio, finché il più estroverso del gruppo, un ragazzo
senegalese, risponde: “qualsiasi cosa. L'importante è lavorare.
Non mi importa che lavoro dovrò fare, basta che sia lavoro.” Come
mai avete scelto di andare proprio in Italia? Bè
ragazzi, non proprio per la pizza, gli spaghetti, il Colosseo o la
dolce vita. Questo però non viene detto in modo così diretto. I
ragazzi stanno zitti, imbarazzati. Risponde la regista per loro: “non
hanno scelto l'Italia, ci sono capitati”. Tra il pubblico c'è
della perplessità. Ma
come, siete arrivati a
piedi!? Si,
a piedi. O come capitava. Magari in un furgone senz'aria, dove
pensavo di soffocare, e da dove non sono uscito per giorni, senza
nemmeno poter mangiare o bere qualcosa. I nostri ragazzi si sentono
un po' scomodi, cominciano a capire meglio. Cosa
avete pensato il primo giorno, quando siete arrivati in Italia? La
regista, che ha in mano il microfono, lo porge al ragazzo seduto di
fianco a lei. Lui passa il microfono al ragazzo accanto, e così il
microfono viene ceduto di mano in mano; gli sguardi dei cinque si
fanno cupi, nessuno vuole rispondere, il pubblico ride imbarazzato.
Poi Wahid, afgano, dice: “io ho sentito male.” L'affermazione ci
colpisce, i nostri ragazzi capiscono chi si trovano davanti: cinque
coraggiosi clandestini. Quelli che ultimamente sono continuamente
bersaglio di insulti razzisti. Cinque ragazzi che hanno lasciato le
loro case e le loro famiglie per andare incontro all'ignoto, perché,
in ogni caso, non avevano nulla da perdere. Tentano allora, i nostri,
domande piuttosto personali, sulle difficoltà del viaggio,
che ora considerano sotto un altro aspetto. A queste domande i cinque
non rispondono in modo preciso. Si limitano a dirci quanto ci hanno
messo per arrivare a Genova. Tre, sei mesi, un anno, più di un anno.
Dicono che in Italia si trovano bene, che hanno seguito dei corsi di
formazione professionale. Uno dei nostri, con meraviglia e stupore
esclama: “È gente che ha voglia di fare, comunque!”. Forse per
lui le parole clandestino
lavoratore
erano un ossimoro, e ora ha raggiunto una nuova consapevolezza.
Questo mi sembra dare una scossa alla situazione: il livello del
pubblico e il livello dei ragazzi immigrati si avvicinano, ci
troviamo più vicini.
Continuano
le domande, i ragazzi ci dicono che il teatro nei loro paesi non
esiste – almeno non con le nostre modalità e la nostra tradizione
-, che uno di loro, il senegalese, il primo giorno di prove si
vergognava così tanto che si è nascosto sotto il palco e non voleva
uscire più.
Poi
ci fanno loro una domanda. Chiedono se nel pubblico c'è qualcuno che
ha affrontato un viaggio
di questo tipo. Si alza un iracheno: due mesi a piedi. Si alza un
nigeriano: cinque giorni su una barca, senza carburante né cibo. Poi
alza la mano un ragazzino, che con le sue parole un po' ingenue e un
po' speranzose, riesce ad assestare i livelli diversi sulla quale si
è sviluppata la discussione; riesce ad annullare lo spazio tra noi
e
loro,
riesce a trovare parole umane davanti ad una situazione scomoda e
difficile. Ci racconta: “Io non ho fatto un viaggio di questo tipo,
ma i miei genitori sì, dal Pakistan. Io volevo dirvi, ragazzi, che
lo so, la nostalgia per il proprio paese rimane sempre. Anche per i
miei genitori è così. Però voi ora dovete avere speranza, e
guardare al futuro.”
A
queste parole gli attori applaudono, i nostri ragazzi esplodono in un
batter di mani folle, con urla e un gran casino. E dentro di me io
sono sollevata, perché capisco che i ragazzi del pubblico, quelli
che ho dovuto anche zittire durante lo spettacolo, turbata e quasi
ferita dai loro commenti volgari ed infantili, alla fine sono
riusciti ad afferrare il messaggio dell'Odissea
dei ragazzi.
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